Ciao Karin,
talvolta si scrive perché i ricordi che si affacciano alla memoria sono troppo arruffati, si mescolano, confondono fra loro le date, emergono provocando onde tumultuose, pretendono di tornare alla vita.
Poi arriva la nostalgia, quella che gonfia gli occhi e il cuore, perché spesso il dolore è l’altra faccia dell’amore e non puoi sfuggire né all’uno né all’altro, anche se è nel secondo che vorresti affondare le radici per sempre.
Che buffo vero, parlare di amore proprio a te, compagna prima di giochi, poi di liceo, poi di università. Tu, io e Giorgio, un trio inseparabile, un legame intoccabile.
Te la ricordi la Stanza? Così chiamavamo da bambini quel piccolo locale definito da tua madre “del disordine”, perché in esso rifluivano tutti quegli oggetti che in una casa, altrove, non avrebbero fatto bella mostra di sé. Per noi, invece, quella era la Stanza dei Desideri, dove, per tacito accordo, ci rifugiavamo quando qualcosa non funzionava per il verso giusto.
Lì scoprivamo il mondo attraverso noi stessi, le nostre parole, i nostri giochi, i nostri sogni, man mano che gli anni ci trasformavano nei corpi e nelle menti.
Te lo ricordi quel caldo giorno di luglio dopo la discussione della mia tesi?
Ero lì, finalmente rilassato, ancora vestito di tutto punto a pontificare sulla delusione delle domande, sul mancato riconoscimento della lode, sulla commissione faziosa. Solo Giorgio cercava di darmi retta e di ridimensionare la mia frustrazione. Tu, come sempre, eri già su un altro pianeta. Chissà dove viaggiavano i tuoi pensieri in quell’estate che sarebbe stata l’ultima trascorsa insieme.
Com’era bello il tuo sorriso, Karin! Sapeva rendere leggero ogni peso che credevamo gravasse sulle nostre spalle, quando ancora non conoscevamo i veri affronti che la vita riserva.
“Take it easy” era la formula magica che accompagnava la dolcezza della tua voce, prima di ricordarci che il destino non va respinto o dominato, ma accolto e fronteggiato con consapevolezza e serenità.
E’ ancora vivido, di quel giorno, il ricordo della piuma che chissà da dove era entrata nella nostra Stanza. Afferrandola con uno slancio brioso, avevi esclamato: “Fai come lei, sollevati da terra, vola alto, affidati al vento e sfida il futuro!”.
Mia cara Karin, a vent’anni di distanza e con lo sguardo più adulto, mi rendo conto della saggezza di quelle incitazioni.
Giorgio, alla fine, ha deciso, insoddisfatto, di deporre la sua laurea in un cassetto e di rilevare il bar di suo padre, abbandonato da Luisella che aveva in mente un modello di esistenza più prestigiosa di un bancone per quattro avvinazzati, come soleva chiamare gli avventori.
Io, ora, sono qui in una camera di ospedale a combattere inutilmente con un cancro ai polmoni all’ultimo stadio: anche sul mio uso smodato del fumo avevi ragione!
Ecco il morso della nostalgia che di nuovo aggredisce il respiro.
Quella piuma, amata Karin, l’hai saputa inseguire solo tu, lasciandoci attoniti e muti, in quell’inizio di settembre del nostro ultimo anno insieme: “Parto per l’Africa, mi unisco a una missione umanitaria e vado a lavorare con i bambini”.
Sorridevi, felice, come se fosse la scelta più ovvia abbandonare tutto – compresi me e Giorgio che ci pensavamo indissolubilmente legati a te per l’eternità – verso un ignoto che ci lasciava costernati, così scollegato dalle nostre abitudini, dalle nostre certezze, dalle nostre convinzioni.
Non abbiamo più avuto notizie di te, Karin: le piume, quando volano nel vento, difficilmente ritornano al punto di partenza.
Ecco perché ti scrivo, pur sapendo che questo foglio non avrà una busta e che ciò nonostante vorrei tu sapessi come la tua lievità sia stata l’insegnamento più bello e più vero ch’io abbia mai imparato. L’unico rimpianto è non avertelo confessato al momento giusto.
Volino almeno adesso le parole nel cielo infinito e chissà che qualcuna prima o poi si posi su di te.
Ti amo.
Bruno
Esercizio: Scrivere un breve racconto inerente alla foto