
DILEMMA
Quando mi svegliai, sbattei gli occhi più volte: davanti a me ci stavo io. Sì, sì, proprio io: non era un’immagine riflessa nello specchio quella che incontrò la mia vista sul far del giorno, bensì l’esatto duplicato del mio volto che mi fissava, les yeux dans les yeux e lo stesso naso la cui lunghezza pronunciata impediva alle labbra carnose di un colore rosa pallido di unirsi alle gemelle prospicienti.
Fossero state le due teste accostate, non avrebbero prodotto lo stesso effetto di sfida che da subito dimostrarono, quando dovettero costatare che gli unici elementi rientranti nel campo visivo erano limitati esclusivamente alla reciproca esistenza.
“A scanso di equivoci, io sono l’Una”, esclamai, rivendicando il diritto del numero primo, poiché sicuramente ero stata generata prima di lei.
“E io l’Altra”.
Mi affrettai allora a chiarire un patto inderogabile: si definissero immediatamente le specifiche competenze per sopportare una convivenza forzata, ma civile, ed evitare spiacevoli raddoppi sensoriali che avrebbero generato il caos.
Già da quel momento uno strano presagio faceva capolino.
“Tengo a dire che non rinuncio alla vista”, esordii in tono perentorio.
“Bene, allora io mi arrogo il diritto all’udito”, replicò l’Altra.
“Io prediligo i profumi e gli odori”.
“Di conseguenza i sapori spettano a me”.
“Sappi che io chiacchiero incessantemente e sono molto espansiva”.
“Io invece sono silenziosa e introversa”.
Il passaggio dai sensi ai modi di essere e di percepire il mondo fu quasi obbligato, essendo le due scatole craniche ospiti di un cervello improvvisamente duplicato e quindi capace di produrre infiniti comportamenti ed emozioni.
“Io canto”
“Io sono stonata”
“Io cucino”
“Io sono perennemente in dieta”
“Mi piace la poesia”
“Io preferisco la prosa”
“Mi elogiano per il mio coraggio”
“Io sono conosciuta come pavida coniglia”
“Mi attivo con la luce del giorno”
“Per me è la notte col suo buio a rendermi viva”
E così via: non appena l’Una illustrava una sua peculiarità, ecco che l’Altra sottolineava con sussiego la sua diversità.
Come se i due cervelli e i quattro emisferi avessero, nel dubbio, optato di spartire le loro innumerevoli funzioni distribuendo a casaccio all’Una e all’Altra gli esatti opposti.
Mi capite? Una sorta di Dr.Jeckill e Mr. Hyde in veste femminile, o di Yin e Yang, dove l’esistenza dell’una dipende necessariamente dall’esistenza dell’altra, come di fatto le due teste avevano scelto di nominarsi e di agire.
Mi sentivo senza via di scampo. Bloccata, inamovibile, a due centimetri di distanza, io con me e nessun altro.
Era naturale che col tempo le divergenze aumentassero e non c’era verso di trovare una mediazione, perché l’Una era risoluta e cocciuta e l’Altra, stranamente, pure.
Lo scontro sembrava inevitabile, poiché non vi era alcuna speranza che Narciso incontrasse la sua Eco e infatti, quando l’insofferenza raggiunse il suo culmine, accadde quel che pareva esser stato da subito un triste presentimento.
Non saprei dire quale delle due teste prese il sopravvento, tenuto conto che l’ira offuscava la vista dell’Una e l’Altra non sapeva trovare le giuste parole per esprimere la sua rabbia. Il risultato, comunque, fu un gran botto causato dal loro cozzare.
Il rumore fu tale che sobbalzai nel letto e mi svegliai sudata, col battito del cuore accelerato.
Che sollievo quando, ad occhi di nuovo aperti, vidi solo la luce del mattino filtrare tra le tapparelle e udii il miagolio del gatto che reclamava il suo cibo.
Che viaggio infernale era stato quell’incontro di me con io; quali espedienti sapeva trovare il sogno per illuminare le zone d’ombra dell’inconscio!
Rassicurata, scesi dal letto già pregustando il ritorno alla tanto deprecata e routinaria normalità, appena appena disturbata da un insolito mal di testa, condizione a me sconosciuta e un po’ fastidiosa da sopportare.
Indagai portando la mano alla fronte e, con mio grande stupore, palpai nel suo bel mezzo un enorme bitorzolo dolente.
Esercizio:
Mantenere inalterate la prima e ultima frase
e dilatare la storia con le altre
Gianni, fermo sullo zerbino, prese le chiavi dalla tasca.
Cercò quella giusta e aprì.
L’interno era buio.
Un odore estraneo, pungente, lo colpì, ma aveva già il dito sull’interruttore.
La luce si accese e l’esplosione squarciò l’appartamento.
Gianni, fermo sullo zerbino, prese le chiavi dalla tasca.
“Il peso di un mazzo di chiavi è proporzionale al potere del suo proprietario!” erano le parole che il tintinnio metallico del robusto portachiavi ad anello riportò alla sua memoria.
Renata gli aveva citato la frase, ridendo, in occasione della prima apertura della nuova porta di casa.
A due mesi di distanza dovette riconoscere che le chiavi dell’umido monolocale della palazzina di Via Turati – lasciato perché troppo piccolo e buio – erano ancora lì agganciate e il fatto che non se ne fosse sbarazzato forse aveva un suo motivo. Sospirò tra sé e sé, mentre la mano indugiava sull’ormai inutile chiave a doppia mappa, quasi fosse l’ultimo baluardo cui aggrapparsi durante il naufragio.
La desiderata convivenza annaspava. I 19 anni di Renata gli apparivano ora in tutto il loro infantilismo, totalmente inadatti ad affrontare le difficoltà legate al mancato e inaspettato rinnovo del suo contratto a tempo determinato.
Le dita scivolarono lungo l’anello fino a scegliere la nuova chiave punzonata della porta blindata.
Decisamente gli pesava il piccolo gesto di infilarla e girarla quattro volte nella toppa per aprire quella che, insieme, avevano creduto la porta di un felice e intimo riparo dai mali del mondo.
Quel martedì l’operazione era ancora più complessa.
“Tu non mi ami, non mi hai mai amata, mi hai solo usata e adesso che dobbiamo decidere il nostro futuro, ancora una volta eserciti il tuo potere”, la voce singhiozzante e disperata di Renata era ancora lì, sospesa nell’aria del pianerottolo.
Che avesse ragione? I piedi di Gianni sembravano incollati allo zerbino dove troneggiava la scritta Home sweet home. Ma come poteva non capire che l’arrivo di un bambino in quel momento non sarebbe stato sostenibile?
“Non possiamo tenerlo, tu devi finire il liceo e io sono disoccupato” era stato il suo dire di fronte al test di gravidanza positivo.
La chiave girò a scatti nella serratura. Una, due, tre, quattro mandate. Abbassò la maniglia.
Accade talvolta la sensazione che il tempo si arresti, mentre nella mente corrono veloci i fotogrammi di una vita intera.
Nel buio dell’anticamera, come sullo schermo di un cinema, rivide gli otto mesi passati con Renata: il primo bacio, le risate senza motivo, il trasloco di lei da lui, le orribili cene consumate sul letto, i primi screzi di fronte agli estratti conto bancari, le scenate e i rimproveri perché il futuro non arriva mai come lo si immagina quando si è innamorati.
L’eco più vivido era quello del suo grido di dolore all’ennesimo tentativo di convincerla ad abortire: “Io invece questo bambino lo VOGLIO.Ti odio, ti odio, ti odio. Hai distrutto la mia vita. Non te lo perdonerò mai”.
Un brivido lo trapassò. In quella manciata di decimi di secondo le sue narici si erano riempite di un odore sinistro e pungente che lo scaraventò immediatamente nella realtà.
“Ma che cosa hai fatto? Dove sei? Rena….la frase restò incompiuta mentre il suo dito premeva l’interruttore del corridoio.
La luce si accese e l’esplosione squarciò l’appartamento.