M. e C. erano alle prese con quel gioco puerile che consiste nel tentare di agganciare, con una debole morsa che scende dall’alto, dei pupazzi di peluches racchiusi in una teca di vetro.
M. giocava mentre C. custodiva la carrozzina.
Allungai il capo, istintivamente attratta da quell’antro misterioso, per osservarne il prezioso contenuto.
La neonata, indifferente al mondo, dormiva placidamente, braccia e gambe, aperte e distese nella postura di chi ancora non ha timore del mondo
Le due donne si mostrarono felici e fiere di poter esibire la loro piccola, e con orgoglio C. disse: “è la nostra Vittoria”, sottolineando il doppio significato del nome.
Io, ormai confinata nell’età in cui si iniziano le frasi con “ai miei tempi”, non potei fare a meno di pensare proprio a “quei tempi”: una simile situazione non poteva esistere nelle nostre giovani menti neppure come fantasia.
Ancora sopravviveva quel maledetto mito del principe azzurro che avrebbe dovuto salvarci, proteggerci di volta in volta da draghi, streghe, orchi, mostri.
Il nostro uomo sarebbe stato il suo doppio: avremmo trovato in lui, a profusione, forza, coraggio, bellezza, scaltrezza, intelligenza.
Eppure…ognuna di noi aveva una migliore amica, che amava, dalla quale era sempre doloroso separarsi, un legame così forte da sembrare indissolubile.
Dolce amica, cosa sarebbe stato di noi se fossimo appartenute a “questi” tempi?
Invece cercai invano l’uomo principesco che mai riuscì ad uscire dalla favola.
Così divenni io quell’uomo: io coraggiosa, io impavida, io protettiva, io….non avevo più bisogno di nessuno.
Questa è la mia vittoria?