E nascemmo

In principio furono strilli e gorgoglii.

Giunsero, accolte da felice stupore, Mamama, Papapa.

Venne il turno della Pappa, della Bibi e del Babau.

Più complicato, invece, fu comprendere la differenza tra il Sì e il No.

Ma lì giocò il suo ruolo vincente la Cacca.

Scoprii, infatti, che l’universo intorno a me ruotava su elementi accessibili (pochi) e altri assolutamente proibiti: No, cacca! (tanti).

Ancora oggi mi chiedo se la diffusa espressione “Vita di m…” sia retaggio di quell’educazione linguistica.

Poco più in là con gli anni, mi impossessai anche del Mio e tanto bastava per definire tutti gli oggetti collocati nel mio campo visivo, di dubbia appartenenza, ma certamente non di esclusivo appannaggio.

Dovetti pian piano imparare che il gesto del dito, il Mio! e il Cacca? non erano sufficienti per soddisfare il dialogo con gli altri, che si ostinavano, a ogni mio vocalizzo, a propormi parole nuove e ad accertarsi che le avessi imparate: “Come si chiama questo?”.

Zitta zitta ascoltavo e cercavo di creare parallelismi tra vista e udito, verificando la giustezza delle mie acerbe conoscenze in base al visibilio o al disappunto altrui.

Ma non era così semplice. Si trattava di liste inesauribili di parole che detestavano la solitudine e si dovevano congiungere le une alle altre con strane combinazioni, formando stringhe di vocaboli cui veniva dato il nome di frasi.

Fu sui banchi di scuola che imparai il nome di tali combinazioni: la grammatica. Non solo. Le parole, in quella sede, potevano condensarsi in ulteriori insiemi: le materie.

Entrarono in quelle aule gli spazi dove finalmente potevo riversare tutti i termini che popolavano il mio sapere – quaderni, blocchi, album, agende, quinterni di fogli a righe e quadretti – e altre numerose pagine già scritte per continuare ad alimentare quella furia di vocaboli che insisteva per cercare dimora dentro di me – sussidiari, atlanti, dizionari, libri illustrati.

Quante parole per etichettare le miriadi di cose e quante parole da attribuire a ogni momento della vita che appare!

Distinsi la parola orale dalla parola scritta e molto presto compresi che la prima aveva il difetto di evaporare, non certo nell’aria, ma nella labilità della memoria.

Di quella scritta m’innamorai, non solo perché la potevo contemplare nel riempimento di un vuoto, ma perché era duratura nel tempo e poteva tornare a bussare ai miei occhi ogni volta che ne avessi avuto nostalgia.

Arrivarono poi le parole tecniche – verbali, relazioni, lettere commerciali, regolamenti, rapporti, contratti, progetti – e le parole sorelle delle terre lontane.

E poi le parole segrete, dei giorni solari e di quelli più bui, quelle tutte per me – intime e lenitive – dei diari, dei racconti, delle poesie, dei romanzi.

Appresi il loro tono, il ritmo, la mimica che le facevano arrivare più dirette all’animo di chi le ascoltava.

Sorprendentemente, da grande adulta, continuo a incontrare nuove parole e così sarà finché morirò, perché loro, indomite, continueranno a nascere.

Esercizio: Trasforma in racconto la poesia E nascemmo di Giancarlo Pontiggia:

E nascemmo
alla vita che già c’era.
Le cose
c’erano, le tante, le inaudite
cose, di cui c’invaghimmo
poco a poco,
E noi guardavamo
l’aria che luceva
e piove e nevi
e soli che stagnavano, tiepidi,
nelle mattine troppo
quiete.
E guardammo, un giorno, i nomi
le parole prime, scure,
che dicono sì e no, che oscillano tra le cose

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