Mentre siedo nella sala d’attesa del Tribunale domando a me stessa quanta fiducia riponga nell’istituzione che quel luogo rappresenta.
Le immagini che mi scorrono davanti fanno pensare alla messa in scena di uno spettacolo teatrale. A ognuno il proprio ruolo: il presunto colpevole alla caccia di alibi e giustificazioni, l’accusa che incalza con prove e testimoni, e infine il giudice.
Questo surrogato di Dio che distingue il bene dal male, che decide le sorti delle umane genti, che stabilisce quanto lunga o crudele dovrà essere la punizione.
Ma non ci saranno vincitori, l’umanità è la vera sconfitta.
Osservo tra l’annoiato e lo stupito il via vai dei professionisti della legalità, affabulatori provetti: la legge è composta da parole ed è con le parole che cercheranno la vittoria.
Ricordo per istinto le lezioni di diritto romano: l’ammirazione, lo stupore nel ritrovare tanta antica saggezza. Ciao Giustiniano! Non siamo riusciti ad essere tuoi degni successori: le norme stanno inutilmente soffocando le nostre esistenze.
Qualcuno disse un giorno che il grado di civiltà di un popolo si misura anche dal numero di leggi di cui non ha bisogno. Siamo quindi ancora “barbari”?
Finalmente esco, stanca dei pensieri cupi che il luogo ha generato e mi allontano frettolosamente da quel mondo irreale fatto di carta e parole con le fondamenta nella sofferenza e penso con amarezza a chi resta ed alla pace che mai avrà.