una immagine, una storia (esercizio)

Conobbi Giorgio del tutto casualmente in un bar del centro. Evidentemente fu subitanea attrazione reciproca. Ci scambiammo i numeri telefonici e cominciò la nostra frequentazione.

Stridente la nostra coppia: lui in abiti raffinati con l’immancabile cravatta ben abbinata, le scarpe lucide e i gemelli ai polsini; io con ampie gonne dai mille colori, gli innumerevoli bracciali e collane tintinnanti al mio passaggio, la chioma fiammeggiante e scomposta dei miei capricciosi riccioli.

E’ storia nota che ci si innamori di una persona per come è, per poi tentare inevitabilmente di cambiarla.

Non sfuggii a questo destino.

Usò l’arma subdola del dono: mi regalò abiti eleganti, un sobrio giro di perle sostituì ben presto i miei sonagli e le pietre multicolori, preziosi diamanti rimpiazzarono i lunghi orecchini carichi di perline e piume, griffate décolleté scacciarono i miei sandali alla schiava ed infine, volle che raccogliessi i miei lunghi e vistosi capelli in un casto e misurato chignon.

C’era un accordo tra noi: non si parlava del passato, delle nostre radici, della nostra provenienza.

Era una calda giornata di maggio quando mi portò nella sontuosa villa circondata dalla campagna.

Aveva fatto preparare un aperitivo, doveva comunicarmi una cosa importante, diceva.

Fortunatamente la tavola imbandita ci attendeva in giardino, la sola idea di entrare nel chiuso di quella seppur bellissima casa, mi faceva sentire braccata.

Il suo discorso introduttivo lasciava intendere la sua volontà di legarsi a me con un vincolo sacro.

Mi sdraiai a terra con il bel vestito primaverile, ultimo dei suoi regali che aveva preteso indossassi, accavallai le gambe e portai le mani dietro la nuca… così… sull’acciottolato fuori casa, vicino al tavolo che qualche solerte cameriera aveva elegantemente apparecchiato. E così rimasi, ad osservare il cielo.

“Ma che fai?” chiese Giorgio con un’espressione smarrita, comprensibilmente stupito.

“Il momento doveva arrivare. E’ ora” risposi. Raccontai ciò che sono: una gitana, una nomade, una zingara, una di quelle persone che solitamente, quelli come lui, guardano con disgusto.

Confessai che preferivo starmene sdraiata a terra guardando il sole piuttosto che rinchiudermi in una gabbia dorata, che non avrei potuto resistere oltre e che avremmo dovuto necessariamente fare una scelta di vita… e stavo dimostrando quale fosse la mia.

Si allontanò silenzioso, inghiottito dall’accurato signorile viale circondato da siepi e rampicanti.

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