LA STORIA DI GIANNI

Mantenere inalterate la prima e ultima frase e dilatare la storia con le altre:

Gianni, fermo sullo zerbino, prese le chiavi dalla tasca.

Cercò quella giusta e aprì.

L’interno era buio.

Un odore estraneo, pungente, lo colpì, ma aveva già il dito sull’interruttore.

La luce si accese e l’esplosione squarciò l’appartamento.

Gianni, fermo sullo zerbino, prese le chiavi dalla tasca.

Il peso di un mazzo di chiavi è proporzionale al potere del suo proprietario!” erano le parole che il tintinnio metallico del robusto portachiavi ad anello riportò alla sua memoria.

Renata gli aveva citato la frase, ridendo, in occasione della prima apertura della nuova porta di casa.

A due mesi di distanza dovette riconoscere che le chiavi dell’umido monolocale della palazzina di Via Turati – lasciato perché troppo piccolo e buio – erano ancora lì agganciate e il fatto che non se ne fosse sbarazzato forse aveva un suo motivo. Sospirò tra sé e sé, mentre la mano indugiava sull’ormai inutile chiave a doppia mappa, quasi fosse l’ultimo baluardo cui aggrapparsi durante il naufragio.

La desiderata convivenza annaspava. I 19 anni di Renata gli apparivano ora in tutto il loro infantilismo, totalmente inadatti ad affrontare le difficoltà legate al mancato e inaspettato rinnovo del suo contratto a tempo determinato.

Le dita scivolarono lungo l’anello fino a scegliere la nuova chiave punzonata della porta blindata.

Decisamente gli pesava il piccolo gesto di infilarla e girarla quattro volte nella toppa per aprire quella che, insieme, avevano creduto la porta di un felice e intimo riparo dai mali del mondo.

Quel martedì l’operazione era ancora più complessa.

Tu non mi ami, non mi hai mai amata, mi hai solo usata e adesso che dobbiamo decidere il nostro futuro, ancora una volta eserciti il tuo potere”, la voce singhiozzante e disperata di Renata era ancora lì, sospesa nell’aria del pianerottolo.

Che avesse ragione? I piedi di Gianni sembravano incollati allo zerbino dove troneggiava la scritta Home sweet home. Ma come poteva non capire che l’arrivo di un bambino in quel momento non sarebbe stato sostenibile?

Non possiamo tenerlo, tu devi finire il liceo e io sono disoccupato” era stato il suo dire di fronte al test di gravidanza positivo.

La chiave girò a scatti nella serratura. Una, due, tre, quattro mandate. Abbassò la maniglia.

Accade talvolta la sensazione che il tempo si arresti, mentre nella mente corrono veloci i fotogrammi di una vita intera.

Nel buio dell’anticamera, come sullo schermo di un cinema, rivide gli otto mesi passati con Renata: il primo bacio, le risate senza motivo, il trasloco di lei da lui, le orribili cene consumate sul letto, i primi screzi di fronte agli estratti conto bancari, le scenate e i rimproveri perché il futuro non arriva mai come lo si immagina quando si è innamorati.

L’eco più vivido era quello del suo grido di dolore all’ennesimo tentativo di convincerla ad abortire: “Io invece questo bambino lo VOGLIO.Ti odio, ti odio, ti odio. Hai distrutto la mia vita. Non te lo perdonerò mai”.

Un brivido lo trapassò. In quella manciata di decimi di secondo le sue narici si erano riempite di un odore sinistro e pungente che lo scaraventò immediatamente nella realtà.

Ma che cosa hai fatto? Dove sei? Rena….la frase restò incompiuta mentre il suo dito premeva l’interruttore del corridoio.

La luce si accese e l’esplosione squarciò l’appartamento.

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