Una storia, diversi punti di vista

Una storia, diversi punti di vista

Stamattina, sotto casa, è passata la signora Carla con il suo bel cane al guinzaglio. Improvvisamente, il cane è scappato e si è lanciato in strada per inseguire un gatto che se ne stava andando verso il bidone della spazzatura. In un attimo, tra l’abbaiare del cane, i miagolii del gatto, le urla della signora Carla, i clacson e le frenate delle macchine, sembrava scoppiata la guerra.

Descrivila come la racconterebbe:

  • un topo di passaggio
  • la padrona del cane
  • l’autista della macchina
  • un bambino di cinque anni

Topo di passaggio

Oggi è una bella giornata!” Rattin strofinò le zampette sul muso e, spiando dalla grata del tombino, si accertò che la strada fosse deserta, prima di strisciare dalla fessura laterale che dal sottosuolo lo immetteva direttamente sul vicolo adiacente alla piazza del mercato.

Si complimentò con sé stesso per la recente scoperta di quel paese del Bengodi, autenticamente reale, dal profumo inebriante che trasudava da bidoni chiusi male e sacchi di plastica accatastati sul marciapiede.

L’unico inconveniente era la vicinanza allo spiazzo delle bancarelle, dove ogni martedì un alto numero di passanti transitava senza sosta: Rattin aveva imparato a sue spese gli sgradevoli suoni umani emessi alla sua vista e, ancor peggio, il rischio di essere travolto da qualche oggetto di natura non ben precisata, che – se la mira fosse stata più accurata – avrebbe arrecato guai seri.

Da lì la saggia decisione di anticipare le sue scorribande nelle prime ore del mattino, mantenendo una certa distanza di sicurezza dalla piazza e perlustrando attivamente il vicolo Magro.

Qui, infatti, si affacciavano numerosi retrobottega di ristoratori di vario genere, e quindi la varietà del menù era pressoché garantita quotidianamente.

Ma conquistare le prelibatezze – il pattume dei bipedi – comportava altre preoccupazioni. Non era infatti Rattin l’unico quattrozampe aspirante consumatore; spesso, durante il buio della notte, altri attentatori facevano man bassa dei bocconi preferiti e meno male, altrimenti in tempi di penuria, il pasto poteva risolversi in modo ben più drammatico essendo, com’è noto, il topo per il gatto preda molto ambita.

Tutto sommato lo scotto da pagare per non poter scegliere tra gli avanzi disponibili aveva un suo vantaggio: i sacchi di plastica ogni mattina si presentavano già aperti, con larghi squarci prodotti dagli artigli felini.

Sapendo che i proverbiali nemici pelosi alle prime luci del giorno si ritiravano per sprofondare nel sonno postprandiale, Rattin sgusciò veloce verso i bidoni allineati lungo il muro a ridosso della cucina della pizzeria Vera Napoli.

Issò le zampe anteriori verso l’irraggiungibile apertura di un contenitore marrone da cui sporgeva, più allettante che mai, una crosta untuosa dal gratificante aroma di gorgonzola che si spandeva fino a solleticargli i baffi tremolanti.

Perbacco, questa non posso lasciarmela scappare

”, considerò l’affamato topino, mentre scrutava negli interstizi vuoti tra i bidoni schierati, alla ricerca di un punto di appoggio che lo innalzasse ad un’altezza sufficiente per spiccare un balzo verso la meta odorosa.

Che forse uno non se lo immagina, ma anche i topi sanno diventare caparbi, quando il boccone vale la pena.

E così, mentre andava e veniva compiendo ripetuti giri attorno alla base quadrata dello sfidante parallelepipedo, fu allertato da un inconsueto tramestio che provocò un rapido arresto del suo daffare.

Ruotò il capo verso l’imbocco del vicolo nella piazza giusto in tempo per vedere un corpo al galoppo che, al ritmo di un gnaulio assordante, correva tenendo ben irta una coda gonfia, grossa tanto quanto la pancia di Rattin.

Che ci fa un gatto qui, a quest’ora?” il primo pensiero dello stupito topo volò alla sua crosta, quasi sbalordito della concorrenza suscitata da un cibo più di pertinenza di un roditore che di un felino.

Ma i secondi che impiegò a formulare tale interrogativo trovarono risposta nel secondo trionfale ingresso di un altro quattrozampe nella stretta viuzza, improvvisamente affollata di faune decisamente fuori posto. Un abbaio misto a ringhio uggioloso tentava infatti di tenere il passo dell’inseguito e così Rattin, a questo punto dimentico della crosta, guardò esterrefatto l’incedere scomposto di un levriero afghano, appesantito dal trascinamento di una lunga corda di cuoio che gli saltellava appresso.

Il bello dell’inseguimento però doveva ancora arrivare perché il gatto in pochi attimi giunse là dove il vicolo, che da un lato si affacciava alla piazza, dall’altro sboccava in una via secondaria destinata al transito a senso unico degli autoveicoli.

Rattin assunse la posa dello spettatore, sedendosi comodamente sulle zampe posteriori e guardando curioso l’accadimento.

Di lì a poco ciò che vide e sentì non è semplice da descrivere: ai soffi e miagolii del gatto sopraffatti dai possenti latrati del cagnone che portava a spasso il proprio guinzaglio, si unirono improvvisamente inchiodi di auto e stridii di freni, prolungati strombettii e strombazzi di clacson oscillanti tra il suono di corno e tonanti mugghi, vocianti imprecazioni e grida e minacce a tutto spiano.

Dal lato opposto del vicolo, invece, ecco incedere una donna elegante che, traballante sui tacchi e la mano posta a reggersi il cappello, invocava ad alta voce: “Reginald, Reginald, torna indietro, Reginaaald”.

E a lei addietro, un uomo di mezz’età – il rosticciere che Rattin conosceva molto bene per ovvi motivi – che urlava “ Signora Carla, signora Carla, si fermi! Guardi che le sono caduti i guanti!”.

Poco dopo il finimondo si assopì, grazie all’agilità dell’insonne gatto che con quattro salti scomparve chissà dove, incurante del malumore generato e dello scornato Reginald che, con qualche finale mugolio di insoddisfazione, obbedì al richiamo della padrona, nel frattempo rientrata in possesso dei guanti.

Bene, bene, bene, oggi è proprio una bella giornata!”, si convinse Rattin nel vedere che, a seguito di tutto quel fuggi fuggi, il buon Reginald, con il suo mantello svolazzante e la stazza a suo parere più simile a quella di un vitello che di un cane, nella corsa aveva urtato e fatto rotolare un sacco della spazzatura proprio vicino al bidone marrone. Salì con facilità sul corpo molle di plastica e con un guizzo atterrò sul coperchio del contenitore, ora finalmente accessibile, dove poté afferrare con gli incisivi la crosta.

Con il suo trofeo in bocca, lesto lesto, se lo trascinò verso la fessura laterale della grata del tombino e sparì nella fognatura.

La padrona del cane

La professoressa Carla De Giorgi era compiaciuta di sé, mentre si spazzolava i capelli davanti allo specchio. Il motivo non era l’immagine di una sessantenne ancora piacente – non estraneo un provvidenziale intervento di restyling – bensì il successo riscontrato nella stesura della petizione richiestale dai vicini condomini “Lei è una letterata, sa come scrivere queste cose”.

In effetti se non fosse stata lei a sollevare il problema, chissà quanto tempo sarebbe passato prima che qualcun altro prendesse l’iniziativa. Tutto era nato durante l’estate appena trascorsa. Alcuni topi avevano fatto comparsa nel vicolo Magro del quartiere, dove, a ritmo serrato, si affacciavano sempre più numerose porte e finestre di cucine o servizi di locali gastronomici multietnici che caratterizzavano la movida della piazza. Graziosi ingressi di Take away, cucina thailandese, cinese, giapponese, Mc Donald’s, pizzerie, bistrot e birrerie invitavano i passanti a fermarsi per un ristoro e mentre sul davanti accoglievano affamati commensali, alla pari di un tubo digerente sul retro espellevano avanzi, rifiuti e scarti. E i topi facevano festa.

La professoressa De Giorgi si era consultata con il Comune, ma i vari passacarte burocrati e l’insopportabile “Non è di mia competenza” l’avevano indotta a rivolgersi direttamente all’opinione pubblica. Ottenuto l’incarico di farsi portavoce delle generali proteste, non si era fatta ripetere l’invito due volte. Presa carta e penna, con gran effluvio di frasi roboanti, aveva preso a descrivere i rischi connessi all’invasione dei topi, citando non solo la nota camussiana opera francese, ma anche i possibili contagi di altre malattie non meno pericolose. Ciò che la riempiva d’orgoglio era soprattutto la soluzione che suggeriva, riferendosi nientemeno che al secolo XIII, quando la Serenissima, ai tempi sotto assedio degli schifosi roditori, grazie all’importazione di gatti soriani aveva sconfitto il nemico. Ebbene, la proposta era stata accolta con entusiasmo dai rappresentanti del partito ecologista, che divennero subito i principali sostenitori di un provvedimento a impatto quasi zero dal punto di vista economico e privo di effetti collaterali causati dai gas sprigionati da una campagna di derattizzazione. Il consiglio comunale deliberò quindi un’ordinanza da avviare in forma sperimentale. Nel quartiere della metropoli era così arrivata una nutrita schiera di gatti.

Qualcosa di morbido sfiorò la coscia della signora Carla.

Oh Reginald, tesoro, hai ragione. Sono già le sette!” Lo splendido levriero afgano dal mantello color crema reclamava la sua uscita mattutina e la coda arrotolata ad anello iniziò ad agitarsi, quando vide la padrona indossare pelliccia e cappello e apprestarsi a soddisfare le sue esigenze corporali. Carla prese il guinzaglio di cuoio fatto a treccia. Non che Reginald ne avesse bisogno, ma era martedì, giorno di mercato e, come tutti i martedì, la signora Carla si degnava di mescolarsi al volgo, perché, fra le dozzinali bancarelle, piazzava il suo camioncino il sig. Mario, rosticciere ambulante, titolare del girarrosto allo spiedo e autore delle migliori alette fritte della città.

Eccoli quindi dopo pochi minuti percorrere le strade ancora semideserte e arrivare al furgone del rosticciere, dove i poveri polli infilzati nello spiedo lentamente giravano e, gocciolanti olio dalla pelle già croccante, sprigionavano odorose fragranze.

Reginald sollevò il lungo muso stretto, contornato da orecchie dal pelo setoso. Naso e occhi umidi, lingua a penzoloni e sguardo languido avrebbero impietosito anche il più refrattario dei commercianti. Mentre la signora Carla si apprestava a pagare le alette fritte, si tolse i guanti e appoggiò sul lastricato il guinzaglio. Contemporaneamente Reginald, con uno scatto inconsueto per la sua non più giovane età e l’incipiente artrosi della zampa posteriore sinistra, dimentico della caccia al boccone, iniziò a latrare e a correre a perdifiato con i riccioli fluttuanti verso il vicolo Magro, attiguo alla piazza ormai già totalmente allestita con le bancarelle delle varie mercanzie.

Complice il profumo dei pennuti arrostiti, evidentemente qualche felino era stato distratto dal compito di cacciatopo (e come dargli torto, qualora ci si trovasse nei panni di un gatto?). Reginald, obbedendo a un istinto primordiale o forse per dar da intendere che non era quello l’ordine impartito, si era subito messo a inseguire il gatto che aveva visto gironzolare fra le ruote del camion di Mario. La sua falcata aveva però perso la potenza dei tempi passati e la faccenda non lo entusiasmava per nulla, ragion per cui, giunto al termine del vicolo, nell’udire la voce della sua proprietaria urlare” Reginaald!” e vedendo che la ben più agile preda ormai era scomparsa, vagamente deluso fece marcia indietro.

Ma Reginald! Che ti è preso? Lo sai che la tua zampa non deve fare sforzi!”.

Oh, grazie Mario!” disse invece rivolta al premuroso ambulante che, insieme al pacchetto delle alette, le stava porgendo i guanti nel frattempo caduti per terra, al posto del guinzaglio.

Dall’altra parte del vicolo, nel frattempo, arrivavano chiassosi strombazzamenti prolungati e uno strepito molesto di vocii confusi davvero importuni in quell’orario mattiniero. “Credo proprio che dovrò pensare a un’altra petizione per questi incivili automobilisti!” considerò la professoressa Carla De Giorgi, mentre Reginald si consolava alzando la zampa posteriore sulle ruote del girarrostaio.

L’autista della macchina

Era l’alba quando la sveglia trillò in casa Visconti.

Una mano sgusciò da sotto la trapunta e, alla cieca, s’indirizzò verso il comodino, fino a zittire la sgradevole suoneria.

Luca Visconti, ancora impastato dal sonno, scese dal letto e andò verso il bagno. Si guardò allo specchio con una smorfia: praticamente aveva dormito solo tre ore e le occhiaie lo dimostravano senza pietà alcuna. Mentre si insaponava il viso con la schiuma da barba ripassò mentalmente la relazione da presentare di lì a poco.

L’Ing. Manganelli il giorno prima era stato molto chiaro durante la riunione con il suo staff. La multinazionale Daf&Daf Corporation l’indomani si sarebbe giocata il suo prestigio, se la videoconferenza con i responsabili amministrativi delle consociate avesse rilevato un minimo errore nei dati del bilancio di fine anno. “Mi rivolgo soprattutto a lei, Dr. Visconti: le voci degli ammortamenti devono essere aggiornate sulla base delle ultime indicazioni dell’amministratore delegato, per cui veda di fare in modo che per domani si inseriscano tutte le correzioni, dovesse passarci sopra la notte. E, mi raccomando a tutti voi, massima puntualità. Alle otto in punto inizierà il videocollegamento, un solo minuto di ritardo e seguiranno i provvedimenti disciplinari”.

Manganelli sapeva sempre fare onore al suo cognome.

Rinunciò al caffè, ritornò in camera da letto, dove si vestì con cura e salutò la moglie, ancora accoccolata nel tepore del posto lasciato vuoto. Passò anche dalla cameretta del figlio Tommaso, profondamente addormentato e abbracciato al suo inseparabile peluche, e lo baciò sulla fronte.

Erano le 7 in punto. Aveva tutto il tempo di arrivare in ditta e fare colazione comodamente seduto al bar. Alla guida, mentre stava per imboccare via Mazzini, uno sbarramento gli bloccò il passaggio. “Maledizione, è martedì, c’è il mercato. Devo fare l’altro tragitto” iniziò a spazientirsi e, sterzando a destra, si immise nella Via Durini, a senso unico, ma a quell’ora ancora discretamente vuota.

La deviazione lo obbligava a percorrere il girone esterno alla piazza e poi a tornare indietro seguendo tutti i sensi unici del centro storico. Accelerò soprappensiero, sempre con gli occhi sull’orologio digitale del cruscotto. Il martedì gli riportò alla memoria un’altra mancanza: aveva promesso a Tommaso che quella sera sarebbero andati in pizzeria, mentre, di martedì, la prassi vedeva la famiglia riunita a cena dalla nonna. “Poco male, ci andremo domani, così sarò anche più rilassato” si ripromise, mentre di nuovo la mente tornava alle prime righe della relazione.

Fu in quel preciso istante che un brusco stridio di freni dell’auto che lo precedeva gli impedì di schiacciare con prontezza il pedale del freno e la sua Volvo si arrestò sul paraurti in acciaio cromato di un’auto di vecchia data, .

Un’anziana donna scese subito dal veicolo e si precipitò a controllare l’entità del danno. Luca sbottò immediatamente: “Ma è impazzita, ma chi le ha dato la patente! Le pare il modo di frenare? Non c’è nessuno per la strada e nemmeno il semaforo!” In effetti non passava anima viva, se si escludeva un cane dal voluminoso mantello che stava facendo dietrofront nel vicolo attiguo e che a Luca parve di riconoscere come il cane di sua madre. Ma non si soffermò più di tanto perché la tipa stava sbraitando: ”E a lei non hanno insegnato che esiste la distanza di sicurezza?”.

Mollate lì per lì le due macchine con i due contendenti all’aperto a discutere, chi stava sopraggiungendo lungo Via Durini poco gradiva quella sosta in una strada in cui non si poteva nemmeno superare agevolmente.

Ma cosa sta lì a controllare! Non vede che non è successo niente?”

Questo lo dice lei!”, la signora stava sfregando con estrema cura un’impercettibile ammaccatura sul parafango. “Chissà quanto mi costerà questo danno. E’ la prima volta che mi capita un incidente, ma ho con me tutta la documentazione necessaria da preparare per l’assicurazione”.

Mentre a Luca salivano i fumi al cervello, nella strada iniziavano a risuonare i primi colpi di clacson, dapprima isolati e poi, in una sorta di stonato coro alpino, aumentarono di intensità in riprese sempre più lunghe e insistenti, cui si aggiungevano le prime voci adirate dai finestrini abbassati.

Allora, si può sapere che cos’è successo?” “Ma levatevi di lì per piacere”. “Ma chi sono quei due pirla che bloccano il traffico”? E amenità del genere, poiché, è risaputo, la guida abbatte i freni inibitori e libera negli umani le più colorite espressioni verbali.

Per favore, signora. Non mi faccia perdere altro tempo. Che cosa vuole che scriviamo sulla costatazione amichevole? Non c’è nemmeno qualcuno che possa testimoniare! Ma si può sapere perché cavolo ha frenato di colpo? Si è sentita poco bene?” Luca era sempre più impaziente e le auto incolonnate pure. Ormai mancava solo la sirena dell’ambulanza e l’assortimento dei suoni sarebbe stato completo.

La signora alzò lo sguardo dal posteriore della sua vettura e si concentrò sul viso alterato di Luca che, rientrando in macchina e abbassando il finestrino, le urlava che per lui il caso era chiuso e facesse il favore di sciogliere l’ingorgo.

Indignata pure lei, si avvicinò allo sportello e gli gridò: Vorrei vedere che cosa avrebbe fatto lei, maleducato signore, se un gatto nero le avesse attraversato la strada!”.

Luca si raggelò. Istintivamente guardò il cornetto rosso e il ferro di cavallo appesi allo specchietto retrovisore. L’orologio digitale segnava le 7.55.

Sono fottuto”, fu il suo unico pensiero.

Un bambino di cinque anni

Tommaso, appena arrivato alla scuola materna, si mise seduto con i gomiti puntati sul banco e il volto corrucciato appoggiato nella conca delle mani.

“Che c’è Tommy?”. Elisa lo guardò, sorpresa da quell’espressione rattristata e scontrosa di un bambino sempre sorridente e giocoso. “Sei arrabbiato?”

“Sì”.

“Non vuoi raccontare alla tua maestra che cos’è successo?”.

“Ieri sera papà non ci ha portato in pizzeria come ci aveva promesso e siamo andati dalla nonna Carla”.

“Beh, le nonne di solito sono brave a far da mangiare! Che cosa ti ha preparato di buono?”.

“Le alette di pollo con le patatine fritte”.

“Che buone!”

“Sì, ma poi papà ha urlato tanto con la nonna”.

Elisa rimase qualche attimo in silenzio. Conosceva la professoressa De Giorgi perché ogni tanto, quando la madre aveva impegni di lavoro fuori città, accompagnava il bambino alla scuola. Era una donna un po’ sussiegosa, con atteggiamenti e abbigliamento da femme fatale, davvero difficile immaginarla impegnata in una discussione accesa.

“Sai, qualche volta i grandi litigano, ma poi passa subito se si vogliono bene, non credi?”

A Tommy spuntarono due lucciconi negli occhi.
“Ehi Tommy, hai voglia di parlarmene?”

Tirando su col naso, Tommy spiegò l’accaduto.

“Papà ha detto a nonna Carla che non doveva scrivere per i gatti perché quelle sono cose di politica e nonna Carla ha detto che i topi in città fanno schifo e fanno venire brutte malattie. E allora papà ha detto che per colpa dei gatti lui non può più andare al lavoro e quando nonna Carla gli ha detto di non fare lo stupido, papà ha detto che ieri c’è stato trambusto vicino al mercato, che le macchine si sono fermate tutte e lui è andato addosso a una anche se non si è fatto niente, ma la vecchia della macchina che stava davanti gli ha fatto perdere un sacco di tempo perché gli ha fatto una botta nel ferro di dietro e allora lui è arrivato tardi e non ha fatto una riunione con tutti quelli che comandano. Poi ha detto che forse aveva visto Reginald. Allora nonna Carla ha detto che lei era andata al mercato a prendere le alette di pollo che sa che mi piacciono tanto e che anche ai gatti piacciono tanto le alette di pollo, e che allora Reginald gli è corso dietro perché invece doveva prendere i topi, ma poi è tornato da lei perché gli fa male una zampa. Allora papà si è arrabbiato ancora di più perché ha detto che se diventiamo poveri è tutta colpa sua che non sa farsi gli affari suoi e che vuole sempre dire lei quello che gli altri devono fare, e allora la nonna Carla si è messa a piangere e allora mamma ha detto a papà di smettere e di tornare a casa che poi io dovevo andare a letto presto”.

Elisa gli pulì col fazzoletto il moccio dal naso.

“Mi spiace, Tommy, ma vedrai che questo problema si risolverà presto”, Elisa tentò di consolare il bimbo piangente.

“No, no, tu non capisci niente. Adesso io sono povero e non posso più chiedere i giocattoli belli, non posso più andare al mare e neanche a sciare a Natale e neanche andare a mangiare la pizza che mi piaceva tanto, di più quella con il gonzolla”.

Quest’ultima pareva la peggior catastrofe che potesse capitargli.

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