Domani traslochiamo.
Papà sarà assunto alla filanda e avremo una casa tutta per noi…in cambio… delle nostre vite.
Lascerò gli amati campi; finite le scorribande lungo il frutteto e le corse con Pallina, la mia cagnolina; mai più soste all’ombra dei covoni, né ciliegie sulle orecchie.
Ho 12 anni e dovrò lavorare nella fabbrica. Mia sorella Anna che di anni ne ha otto, comincerà al compimento del nono.
Questa la regola del villaggio della filanda.
Ogni mattina, tranne la domenica, al suono della sirena, dovrò entrare all’interno di questo enorme mostro brulicante di vite mal spese, per 10, forse 12 ore.
Quanto mi mancherà quel colore rosso che appare dietro le palpebre quando, sdraiata sull’erba, offro il viso al sole con gli occhi chiusi!
Mamma e papà sono al settimo cielo: una casa, uno stipendio, una sicurezza in un villaggio con tante comodità.
C’è una chiesa, la scuola, la caserma dei carabinieri e dei pompieri, una piscina, i bagni pubblici, il lavatoio, un teatro, un piccolo ospedale, persino un campo per giocare a tamburello, ed infine il cimitero.
Ho saputo che la gente del posto così riassume la vita nel paese: dalla culla alla bara.
Nella fabbrica l’aria è malsana, le polveri del cotone soffocanti, il rumore assordante; fa freddo in inverno e caldo in estate.
Le case non sono propriamente tutte uguali: sono del prete e del medico le lussuose case sulla piccola collina. Sono cittadini utili al sciur padrun (si vocifera che il sermone domenicale sia tra loro concordato).
I dirigenti hanno le grandi ville situate ai margini del paese, lontano dal rumore e dall’atmosfera insalubre, con grandi giardini e un architettura che sottolinea il diverso ceto sociale.
E il padrun?….ha un castello! Come quello di Biancaneve, forse ancor più grande.
Poi ci sono le nostre case, tutte uguali: il piano terra, con i servizi, da condividere con altre due famiglie, e le camere da letto al piano superiore.
Papà dice che siamo fortunati perché anni addietro saremmo stati collocati nelle grandi camerate poste nell’edificio di fronte alla chiesa, che sembra un carcere.
Persino le tombe danno rilievo al ruolo assunto dal defunto all’interno della fabbrica.
Come se il resto del mondo non esistesse.
Come se ognuno dovesse accettare, senza speranza di riscatto, la propria posizione sociale, stando tranquillo al proprio posto: dalla culla alla bara, appunto.
Ho ormai lasciato la culla e non sono pronta per la bara: non trascorrerò qui il tempo che ancora intercorre tra l’una e l’altra.