La posizione scelta consentiva di scrutare l’intero piazzale Roma senza che nessuno potesse notare la mia presenza.
Il bus, modello turismo, troneggiava nel centro, monumento all’agglomerato su ruote, con le sedute disposte in fila, riflesso di quell’ordine e simmetria che l’uomo cerca invano di imporre a sé stesso a scapito della fantasia, dell’immaginazione, del sogno. Avvertivo il vociare sommesso farsi più insistente, il tono più alto; le parole, ora più nitide, rivelavano ansia e preoccupazione: dov’è? Non possiamo abbandonarla qua!
Poco lontano due vagabondi razzolavano vicino ad un contenitore posto sul retro di un ristorante. Era ciò che mi attendeva? L’alternativa? Ritornare?
Lui se n’era andato insieme al nostro conto in banca, insensatamente a lui solo intestato. Neppure un biglietto di addio, solo una voce asettica sulla segreteria che, quasi fosse una postilla alla lista della spesa, declamava “me ne vado”.
La storia era al capolinea, lo sapevamo entrambi. Non mi aspettavo il colpo basso. Ma attendevo questo momento. Mi serviva un alibi, una motivazione.
Alla spicciolata ora salgono, formichine, nell’automezzo; ognuno di loro si gira un’ultima volta abbracciando con una sola occhiata l’intera piazza per poi continuare a scrutare, contro il vetro e con le mani ai lati degli occhi, i volti dei passanti alla ricerca del mio.
Ed io sono qui, immobile, mentre penso al mio futuro che, finalmente, è un foglio bianco.
e magari su queste pagine scrivere TANTI RACCONTI.
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